Studi & Ricerche

 

 


DIDATTICA E INFORMATICA:
PROSPETTIVE E PROBLEMI

 di Alberto Giovanni Biuso
Direttore del Centro Studi dell'A.N.D.

 

II parte: Internet e la didattica

(Febbraio 2003)

 

Internet e la didattica quotidiana


Bisogna respingere con chiarezza i fast-food dell’insegnamento, l’illusione che sia possibile e auspicabile «un apprendimento senza “fatica”, immediatamente chiaro, semplice, applicabile e riproducibile»[1]. Nell’era di Internet, come in quella dell’Atene classica, delle Accademie rinascimentali o delle università moderne, la comunicazione più efficace fra allievo e maestro, la più vera delle strategie conoscitive rimane quella socratica: «in realtà, il docente può fare tutto e il contrario di tutto, ma alla fine se lo studente impara è perché a capire un determinato concetto c’è arrivato lui, proprio lui, nessun altro lo ha potuto fare al posto suo»[2].

La macchina da sola non produce nessun miracolo virtuale, nessuna rivoluzione epistemologica, proprio perché non è possibile un insegnamento separato dalla concreta e viva soggettività del docente. Ciò non significa, naturalmente, che strutture scolastiche e programmi formativi non debbano essere pensati attentamente ma solo che debbano essere pensati in funzione del vivo rapporto educativo con gli allievi e delle rigorose competenze disciplinari di chi sta in cattedra. Nessuna riforma e nessuna novità metodologica produrranno degli effetti positivi se prima di tutto chi insegna non conosce a fondo la propria disciplina. Nessuna riforma che voglia avere successo può permettersi di trascurare le competenze e l’esperienza professionale di maestri e professori. La tecnologia del Web da sola non dà valore aggiunto all’insegnamento se questo non ha alla sua base una pedagogia matura e consapevole. Dall’equivoco –ingenuo ma diffuso- della autonomia del mezzo rispetto al fine nasce quella realtà ben sintetizzata da Barnette: «le attività dell’insegnamento della filosofia nel cyberspazio ispirano e gratificano così come spesso deludono e creano dubbi»[3]. Chi sta ogni giorno a scuola e cerca di utilizzare nella propria didattica i laboratori informatici sa che le cose stanno proprio in questo modo. Nessuna chiusura quindi nei confronti dell’e-learning ma anche nessun acritico entusiasmo.

È interessante che l’evoluzione degli strumenti informatici –ad esempio, i libri elettronici- abbia reso ancora più evidente la differenza ontologica fra i contenuti culturali e mentali, il significato, e i supporti materiali che li veicolano, il significante. Un libro, infatti, che cos’è? Il testo o il supporto (papiro, pergamena, carta, schermo LCD) che lo veicola?[4] Attraverso la Rete, del libro rimane il contenuto informativo che lo costituisce, mentre varia radicalmente il modo in cui tale contenuto viene distribuito: non più una libreria con degli scaffali ma una serie di impulsi elettronici. Le potenzialità culturali degli elaboratori e delle reti informatiche sono davvero molte. Alcune delle previsioni formulate solo pochi anni orsono si vanno di fatto realizzando, e spesso oltre le stesse speranze di chi le ipotizzava. Almeno su un punto, però, la scienza dei calcolatori non sembra aver compiuto reali progressi: sulla questione dell’intelligenza delle macchine. I calcolatori, infatti, elaborano l’informazione assai più velocemente degli umani ma non raggiungono la consapevolezza –neppure elementare- di ciò che accade nei loro stessi circuiti, limitandosi a costruire e a computare una serie infinita di uno e di zero. Ora, poiché comprendere implica non solo la padronanza delle regole del discorso, il dominio sintattico delle procedure, ma richiede anche la comprensione dei significati e quindi una semantica, anche le macchine più potenti sono ancora stupide. Lo rimarranno per sempre? Alcuni computer sono in grado di affrontare problemi molto complessi e di saperli risolvere anche assai meglio di un’intelligenza umana. La capacità di autocorrezione e quindi di apprendimento del nuovo è anch’essa tecnicamente possibile. Molti computer possiedono dei software in grado di modificare l’output in relazione alla diversità degli input che vengono presentati. Il gioco degli scacchi rappresenta una delle attività più formalizzate nelle quali una mente possa esercitarsi. Fino a qualche decennio fa, molti studiosi erano convinti che mai una macchina avrebbe potuto sconfiggere un Gran Maestro degli scacchi, poiché si tratta di un gioco nel quale la pura potenza tattica del calcolo –la forza bruta della infinita serie di zero e di uno che un computer può mettere in fila- non basta e dove invece è necessaria una comprensione strategica del gioco e del suo contesto. E tuttavia Kasparov –all’epoca campione del mondo- nel 1997 fu sconfitto da Deep Blue, con una modalità che fece dire allo sfidante umano che la macchina aveva dato –per quanto incredibile potesse apparire- “segni di intelligenza”. Si tratta di un evento certamente rilevante anche se è solo un primo passo nell’evoluzione dei computer verso l’intelligenza.

La teledidattica è quell’insieme di strumenti digitali che dovrebbero –a detta di molti- sostituire aule, lavagne e libri. Maldonado osserva giustamente che si rischia in questo modo di ripetere l’«errore che ipostatizza il momento tecnico del processo formativo, oscurando un vasto arco di questioni che riguardano le sue finalità e i suoi contenuti»[5]. Come sempre nell’ambito educativo la domanda sul perché è assai più importante di quella sul come. In particolare, poi, anche la nostra esperienza di insegnanti ci dice che «nessun progetto di teledidattica, per quanto ambizioso esso sia, potrà fare a meno di ricorrere anche al libro»[6] poiché se i cd-rom e Internet possono rappresentare preziosi strumenti di consultazione e di reperimento veloce di informazioni, il libro a stampa –oltre che essere assai più comodo nell’uso quotidiano- consente un approfondimento, un’attenzione al pensiero in atto, uno spazio di riflessione insostituibile.

 

Un esempio concreto: la didattica della filosofia

Negli ultimi trent’anni l’insegnamento della filosofia in Italia è passato dal suo assorbimento nelle cosiddette «scienze umane» -e dunque dalla proclamata “fine” della sua autonomia e, con essa, della sua stessa esistenza- ai recenti progetti che intendono estenderne la pratica a tutte le scuole secondarie, compresi gli istituti tecnici e professionali, e persino ad altri ordini come la scuola elementare. Qual è il reale significato della vivacità e complessità della filosofia e del suo insegnamento?

I due modelli che tradizionalmente si confrontano nell’insegnamento della filosofia sono quello teoretico e quello storico. Il cammino di queste diverse opzioni -prima di tutto culturali e filosofiche e solo secondariamente didattiche- si intreccia sia con le vicende della scuola italiana dai programmi Coppino del 1884 alle commissioni berlingueriane, sia con l’analisi dei loro fondamenti epistemologici. È interessante la parabola ideologica di quei gruppi che negli anni Cinquanta difendevano il modello storico contro le proposte teoretiche del mondo cattolico, che teorizzarono poi per decenni la dissoluzione della filosofia nella storia e che ora decretano con altrettanta sicurezza la necessità di abbandonare quel modello per sostituirlo con la discussione di «questioni di senso e di valore (obblighi, scopi, diritti e doveri, valutazione delle condotte, questioni di giustizia) » e con «questioni di verità (a partire da nozioni elementari di logica, teoria dell’argomentazione, epistemologia) »[7]. In realtà, una continuità fra queste posizioni c’è e consiste nel tentativo di privare la filosofia e il suo insegnamento della loro dimensione critica per subordinarle, invece, agli imperativi ideologici del momento, che siano la dissoluzione della teoresi nella prassi storica o la sua riduzione «ad una infarinatura superficiale e soprattutto a un surrogato valoriale», a «un discorso generico e banalizzante», che col pretesto di una «educazione alla cittadinanza democratica» trasformi la ricerca filosofica in una forma di edificazione e di apologia del presente[8]. Noi difendiamo una scuola come luogo dei saperi contro i tentativi di ridurla a un semplice luogo di socializzazione.

Se questo è lo scopo, i mezzi saranno funzionali al suo raggiungimento. Entrambi i modelli –storico e teoretico- hanno dei meriti e dei limiti; bisogna in ogni caso fare attenzione a non confondere il modello storico con la sua successiva degenerazione nel metodo storicistico; del metodo teoretico va invece apprezzato l’impulso a discutere di problemi e a ragionare in modo formalmente rigoroso. Anche in relazione alle recenti proposte delle commissioni ministeriali, che cosa significa per la filosofia l’«alleggerimento dei contenuti disciplinari» da esse auspicato? Se si intende sfrondare la disciplina filosofica di alcuni contenuti inessenziali per i non specialisti, se si vuole concentrare lo studio e la riflessione su una serie di nuclei tematici e di nomi centrali per comprendere la vita e l’identità dell’Occidente, se ci si riferisce a un semplice suggerimento didattico, non solo siamo d’accordo ma è quello che di fatto molti docenti di filosofia vanno realizzando da anni. Alleggerire può però anche significare la cancellazione della profondità storica della filosofia. Chiediamoci fino a che punto sia alleggeribile in questo senso il sapere filosofico senza che esso cessi di rimanere tale per trasformarsi invece in...chiacchiera più o meno ideologica.

Altra cosa sarebbe il coniugare metodo storico e analisi dei problemi; l’alternare nella didattica momenti di ricostruzione cronologica ad altri di approfondimento monografico; il lasciare che nei ragazzi le domande emergano spontanee quando arriva il momento, senza presumere di fornire a tutti e dall’alto il “manuale del piccolo filosofo”. C’è un metodo per collegare la storia del pensiero all’urgenza del presente e consiste nel fare filosofia prima di tutto e sistematicamente attraverso i testi dei filosofi. Dalle loro pagine, infatti, emerge chiarissima -per chi sappia leggere e aiuti i ragazzi a capire- la costanza dei problemi e l’attualità delle risposte. Il manuale come sfilza di nomi e di correnti è morto da tempo. Chi ha voluto, lo ha già sostituito con le opere dei filosofi, con ciò che davvero conta. Stelli ricorda giustamente che la riforma Gentile del 1923 prescriveva il «contatto diretto e continuato con i testi classici scelti in un ampio elenco di autori di ogni età e indirizzo» e che fu la successiva riforma De Vecchi del 1936 a sostituire la lettura dei testi filosofici con il manuale di storia della filosofia[9]. I programmi proposti dalla Commissione Brocca a metà degli anni Ottanta costituivano un positivo ritorno al contatto diretto con la parola viva dei filosofi.

 

Conclusione: per una didattica (multimediale e non) consapevole dei propri limiti

I veri vincoli all’azione dei computers sono di base, riguardano i limiti intrinseci al loro funzionamento, le restrizioni matematiche e quindi non solo di fatto, e cioè tecnicamente, ma anche logicamente inoltrepassabili: «un problema algoritmico che non ammette soluzione è detto non computabile; se è un problema decisionale (…) si usa il termine indecidibile»[10], al cui interno si configurano vari livelli di intrattabilità. In sintesi, esistono dei limiti matematici alla computazione di algoritmi esponenziali. Una loro possibile soluzione, o anche solo decidibilità, richiederebbe infatti risorse temporali di gran lunga superiori all’età dell’Universo e risorse di memoria maggiori dell’estensione dello spazio conosciuto.

Un limite di fondo della computazione e quindi della didattica costruita sugli elaboratori, è l’enorme difficoltà –per non dire l’impossibilità pratica- di far comprendere e parlare alle macchine un linguaggio naturale. Data la grande variabilità lessicale, la ricchezza contenutistica e la complessità semantica dei linguaggi umani, la sintassi dei linguaggi-macchina rimane del tutto insufficiente anche solo per avvicinarsi a qualcosa che somigli a una comprensione della realtà, dei contesti, delle parole. Harel nota ironicamente che il programma ELIZA –elaborato negli anni Sessanta per simulare le risposte di uno psicoterapeuta alle domande dei pazienti- «ha mostrato –con grandissima efficacia- quanto sia semplice sembrare intelligenti, per lo meno per breve tempo, di fronte a un ascoltatore ben disposto e all’interno di un ambito ben definito. Esserlo è tutt’altra cosa»[11].

Intelligenza è anche la capacità di coordinare fra di loro facoltà quali la conoscenza, l’apprendimento, la deduzione. I vincoli propri di ogni macchina «intelligente» sono radicati nelle restrizioni matematiche, nei confini spazio-temporali dell’essere e anche nella nostra –umana- identità di enti costituiti da una finitudine sostanziale. La pedagogia, la concreta attività educativa, la scuola, hanno raggiunto i migliori risultati possibili quando hanno accettato la propria difettività e non hanno creduto che il docente e gli strumenti da lui utilizzati possano diventare onnipotenti e far superare i confini naturali di ogni individuo. Lo spazio della formazione è sempre il luogo di un dialogo fra persone vive, con tutti i limiti di ciascuno. Per fortuna.

(Vai alla I parte: comunicazione e problemi dell'apprendimento)
 


[1] D.Massaro-A.Grotti, Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di Internet, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 145.

[2] Ivi, p. 193.

[3] R. Barnette, «L’insegnamento della filosofia nel cyberspazio», in La fenice digitale, Apogeo, Milano 2000, p. 367.

[4] Sui rapporti fra la Rete e i libri, si veda A.G. Biuso, HyperNietzsche. La Rete, Nietzsche, il futuro dei libri in «La Rivista dei Libri», maggio 2001, pp. 29-31.

[5] T. Maldonando, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997, p. 129.

[6] Ivi, p.135.

[7] I contenuti essenziali per la formazione di base, redatti dalla cosiddetta “Commissione dei saggi” coordinata da R. Maragliano.

[8] G. Stelli - D. Lanari, Modelli di insegnamento della filosofia, cit., pp. 69-71.

[9] Ivi, p. 60.

[10] D. Harel, Computer a responsabilità limitata. Dove le macchine non riescono ad arrivare, trad. di L. Civalleri, Einaudi, Torino 2002, p. 34.

[11] Ivi, pp. 174-175.

 


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