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DIDATTICA E INFORMATICA: PROSPETTIVE E PROBLEMI
di
Alberto Giovanni Biuso Direttore
del Centro
Studi dell'A.N.D.
II parte: Internet e
la didattica
(Febbraio 2003)
Internet
e la didattica quotidiana
Bisogna respingere
con chiarezza i fast-food dell’insegnamento, l’illusione che
sia possibile e auspicabile «un apprendimento senza “fatica”,
immediatamente chiaro, semplice, applicabile e riproducibile». Nell’era di
Internet, come in quella dell’Atene classica, delle Accademie
rinascimentali o delle università moderne, la comunicazione più
efficace fra allievo e maestro, la più vera delle strategie
conoscitive rimane quella socratica: «in realtà, il docente può fare
tutto e il contrario di tutto, ma alla fine se lo studente impara è
perché a capire un determinato concetto c’è arrivato lui, proprio
lui, nessun altro lo ha potuto fare al posto suo».
La macchina da sola
non produce nessun miracolo virtuale, nessuna rivoluzione
epistemologica, proprio perché non è possibile un insegnamento
separato dalla concreta e viva soggettività del docente. Ciò non
significa, naturalmente, che strutture scolastiche e programmi
formativi non debbano essere pensati attentamente ma solo che
debbano essere pensati in funzione del vivo rapporto
educativo con gli allievi e delle rigorose competenze
disciplinari di chi sta in cattedra. Nessuna riforma e
nessuna novità metodologica produrranno degli effetti positivi se
prima di tutto chi insegna non conosce a fondo la propria
disciplina. Nessuna riforma che voglia avere successo può
permettersi di trascurare le competenze e l’esperienza professionale
di maestri e professori. La tecnologia del Web da sola non dà valore
aggiunto all’insegnamento se questo non ha alla sua base una
pedagogia matura e consapevole. Dall’equivoco –ingenuo ma diffuso-
della autonomia del mezzo rispetto al fine nasce quella realtà ben
sintetizzata da Barnette: «le attività dell’insegnamento della
filosofia nel cyberspazio ispirano e gratificano così come spesso
deludono e creano dubbi». Chi sta ogni
giorno a scuola e cerca di utilizzare nella propria didattica i
laboratori informatici sa che le cose stanno proprio in questo modo.
Nessuna chiusura quindi nei confronti dell’e-learning ma
anche nessun acritico entusiasmo.
È interessante che
l’evoluzione degli strumenti informatici –ad esempio, i libri
elettronici- abbia reso ancora più evidente la differenza ontologica
fra i contenuti culturali e
mentali, il significato, e i supporti materiali che li
veicolano, il significante. Un
libro, infatti, che cos’è? Il testo o il supporto (papiro,
pergamena, carta, schermo LCD) che lo veicola? Attraverso la
Rete, del libro rimane il contenuto informativo che lo costituisce,
mentre varia radicalmente il modo in cui tale contenuto viene
distribuito: non più una libreria con degli scaffali ma una serie di
impulsi elettronici. Le potenzialità culturali degli elaboratori e
delle reti informatiche sono davvero molte. Alcune delle previsioni
formulate solo pochi anni orsono si vanno di fatto realizzando, e
spesso oltre le stesse speranze di chi le ipotizzava. Almeno su un
punto, però, la scienza dei calcolatori non sembra aver compiuto
reali progressi: sulla questione dell’intelligenza delle macchine.
I calcolatori, infatti, elaborano l’informazione assai più
velocemente degli umani ma non raggiungono la consapevolezza
–neppure elementare- di ciò che accade nei loro stessi circuiti,
limitandosi a costruire e a computare una serie infinita di uno e di
zero. Ora, poiché comprendere implica non solo la padronanza delle
regole del discorso, il
dominio sintattico delle procedure, ma richiede anche la
comprensione dei significati e quindi una
semantica, anche le macchine più potenti sono ancora stupide. Lo
rimarranno per sempre? Alcuni computer sono in grado di affrontare
problemi molto complessi e di saperli risolvere anche assai meglio
di un’intelligenza umana. La capacità di autocorrezione e quindi di
apprendimento del nuovo è anch’essa tecnicamente possibile. Molti
computer possiedono dei software in grado di modificare
l’output in relazione alla diversità degli input che
vengono presentati. Il gioco degli scacchi rappresenta una delle
attività più formalizzate nelle quali una mente possa esercitarsi.
Fino a qualche decennio fa, molti studiosi erano convinti che mai
una macchina avrebbe potuto sconfiggere un Gran Maestro degli
scacchi, poiché si tratta di un gioco nel quale la pura potenza
tattica del calcolo –la forza bruta della infinita serie di zero e
di uno che un computer può mettere in fila- non basta e dove invece
è necessaria una comprensione strategica del gioco e del suo
contesto. E tuttavia Kasparov –all’epoca campione del mondo- nel
1997 fu sconfitto da Deep Blue, con una modalità che fece
dire allo sfidante umano che la macchina aveva dato –per quanto
incredibile potesse apparire- “segni di intelligenza”. Si tratta di
un evento certamente rilevante anche se è solo un primo passo
nell’evoluzione dei computer verso l’intelligenza.
La
teledidattica è quell’insieme di strumenti digitali che
dovrebbero –a detta di molti- sostituire aule, lavagne e libri.
Maldonado osserva giustamente che si rischia in questo modo di
ripetere l’«errore che ipostatizza il momento tecnico del processo
formativo, oscurando un vasto arco di questioni che riguardano le
sue finalità e i suoi contenuti». Come sempre
nell’ambito educativo la domanda sul perché è assai più
importante di quella sul come. In particolare, poi, anche la
nostra esperienza di insegnanti ci dice che «nessun progetto di
teledidattica, per quanto ambizioso esso sia, potrà fare a meno di
ricorrere anche al libro» poiché se i
cd-rom e Internet possono rappresentare preziosi strumenti di
consultazione e di reperimento veloce di informazioni, il libro a
stampa –oltre che essere assai più comodo nell’uso quotidiano-
consente un approfondimento, un’attenzione al pensiero in atto, uno
spazio di riflessione insostituibile.
Un
esempio concreto: la didattica della filosofia
Negli ultimi
trent’anni l’insegnamento della filosofia in Italia è passato dal
suo assorbimento nelle cosiddette «scienze umane» -e dunque dalla
proclamata “fine” della sua autonomia e, con essa, della sua stessa
esistenza- ai recenti progetti che intendono estenderne la pratica a
tutte le scuole secondarie, compresi gli istituti tecnici e
professionali, e persino ad altri ordini come la scuola elementare.
Qual è il reale significato della vivacità e complessità della
filosofia e del suo insegnamento?
I due modelli che
tradizionalmente si confrontano nell’insegnamento della filosofia
sono quello teoretico e quello storico. Il cammino di queste diverse
opzioni -prima di tutto culturali e filosofiche e solo
secondariamente didattiche- si intreccia sia con le vicende della
scuola italiana dai programmi Coppino del 1884 alle commissioni
berlingueriane, sia con l’analisi dei loro fondamenti
epistemologici. È interessante la parabola ideologica di quei gruppi
che negli anni Cinquanta difendevano il modello storico contro le
proposte teoretiche del mondo cattolico, che teorizzarono poi per
decenni la dissoluzione della filosofia nella storia e che ora
decretano con altrettanta sicurezza la necessità di abbandonare quel
modello per sostituirlo con la discussione di «questioni di senso e
di valore (obblighi, scopi, diritti e doveri, valutazione delle
condotte, questioni di giustizia) » e con «questioni di verità (a
partire da nozioni elementari di logica, teoria dell’argomentazione,
epistemologia) ». In realtà,
una continuità fra queste posizioni c’è e consiste nel tentativo di
privare la filosofia e il suo insegnamento della loro dimensione
critica per subordinarle, invece, agli imperativi ideologici del
momento, che siano la dissoluzione della teoresi nella prassi
storica o la sua riduzione «ad una infarinatura superficiale e
soprattutto a un surrogato valoriale», a «un discorso generico e
banalizzante», che col pretesto di una «educazione alla cittadinanza
democratica» trasformi la ricerca filosofica in una forma di
edificazione e di apologia del presente. Noi
difendiamo una scuola come luogo dei saperi contro i
tentativi di ridurla a un semplice luogo di
socializzazione.
Se questo è lo scopo,
i mezzi saranno funzionali al suo raggiungimento. Entrambi i modelli
–storico e teoretico- hanno dei meriti e dei limiti; bisogna in ogni
caso fare attenzione a non confondere il modello storico con la sua
successiva degenerazione nel metodo storicistico; del metodo
teoretico va invece apprezzato l’impulso a discutere di problemi e a
ragionare in modo formalmente rigoroso. Anche in relazione alle
recenti proposte delle commissioni ministeriali, che cosa significa
per la filosofia l’«alleggerimento dei contenuti disciplinari» da
esse auspicato? Se si intende sfrondare la disciplina filosofica di
alcuni contenuti inessenziali per i non specialisti, se si vuole
concentrare lo studio e la riflessione su una serie di nuclei
tematici e di nomi centrali per comprendere la vita e l’identità
dell’Occidente, se ci si riferisce a un semplice suggerimento
didattico, non solo siamo d’accordo ma è quello che di fatto molti
docenti di filosofia vanno realizzando da anni. Alleggerire può però
anche significare la cancellazione della profondità storica della
filosofia. Chiediamoci fino a che punto sia alleggeribile in questo
senso il sapere filosofico senza che esso cessi di rimanere tale per
trasformarsi invece in...chiacchiera più o meno
ideologica.
Altra cosa sarebbe il
coniugare metodo storico e analisi dei problemi; l’alternare nella
didattica momenti di ricostruzione cronologica ad altri di
approfondimento monografico; il lasciare che nei ragazzi le domande
emergano spontanee quando arriva il momento, senza presumere di
fornire a tutti e dall’alto il “manuale del piccolo filosofo”. C’è
un metodo per collegare la storia del pensiero all’urgenza del
presente e consiste nel fare filosofia prima di tutto e
sistematicamente attraverso i testi dei filosofi. Dalle
loro pagine, infatti, emerge chiarissima -per chi sappia leggere e
aiuti i ragazzi a capire- la costanza dei problemi e l’attualità
delle risposte. Il manuale come sfilza di nomi e di correnti è morto
da tempo. Chi ha voluto, lo ha già sostituito con le opere dei
filosofi, con ciò che davvero conta. Stelli ricorda giustamente che
la riforma Gentile del 1923 prescriveva il «contatto diretto e continuato
con i testi classici
scelti in un ampio elenco di autori di ogni età e indirizzo» e che
fu la successiva riforma De Vecchi del 1936 a sostituire la lettura
dei testi filosofici con il manuale di storia della filosofia. I programmi
proposti dalla Commissione Brocca a metà degli anni Ottanta
costituivano un positivo ritorno al contatto diretto con la parola
viva dei filosofi.
Conclusione:
per una didattica (multimediale e non) consapevole dei propri
limiti
I veri vincoli all’azione dei computers sono di base,
riguardano i limiti intrinseci al loro funzionamento, le restrizioni
matematiche e quindi non solo di fatto, e cioè tecnicamente,
ma anche logicamente inoltrepassabili: «un problema algoritmico che
non ammette soluzione è detto non computabile; se è un
problema decisionale (…) si usa il termine indecidibile», al cui
interno si configurano vari livelli di intrattabilità. In
sintesi, esistono dei limiti matematici alla computazione di
algoritmi esponenziali. Una loro possibile soluzione, o anche solo
decidibilità, richiederebbe infatti risorse temporali di gran lunga
superiori all’età dell’Universo e risorse di memoria maggiori
dell’estensione dello spazio conosciuto.
Un limite di fondo della computazione e quindi della
didattica costruita sugli elaboratori, è l’enorme difficoltà
–per non dire l’impossibilità pratica- di far comprendere e parlare
alle macchine un linguaggio naturale. Data la grande variabilità
lessicale, la ricchezza contenutistica e la complessità semantica
dei linguaggi umani, la sintassi dei linguaggi-macchina rimane del
tutto insufficiente anche solo per avvicinarsi a qualcosa che
somigli a una comprensione della realtà, dei contesti, delle
parole. Harel nota ironicamente che il programma ELIZA –elaborato
negli anni Sessanta per simulare le risposte di uno psicoterapeuta
alle domande dei pazienti- «ha mostrato –con grandissima efficacia-
quanto sia semplice sembrare intelligenti, per lo meno per
breve tempo, di fronte a un ascoltatore ben disposto e all’interno
di un ambito ben definito. Esserlo è tutt’altra cosa».
Intelligenza è anche
la capacità di coordinare fra di loro facoltà quali la conoscenza,
l’apprendimento, la deduzione. I vincoli propri di ogni macchina
«intelligente» sono radicati nelle restrizioni matematiche, nei
confini spazio-temporali dell’essere e anche nella nostra –umana-
identità di enti costituiti da una finitudine sostanziale. La
pedagogia, la concreta attività educativa, la scuola, hanno
raggiunto i migliori risultati possibili quando hanno accettato la
propria difettività e non hanno creduto che il docente e gli
strumenti da lui utilizzati possano diventare onnipotenti e far
superare i confini naturali di ogni individuo. Lo spazio della
formazione è sempre il luogo di un dialogo fra persone vive, con
tutti i limiti di ciascuno. Per fortuna.
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